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mercoledì 25 giugno 2014

Comunità, gruppi vivi di cristiani...




Come ci comprotiamo quando facciamo parte di una comunità o di gruppi impegnati in società o semplicemente in parrocchia, in famiglia? Siamo tutti per uno e uno per tutti?

L'amore reciproco crea una comunità viva
 di Chiara Lubich
 

Un solo corpo

Hai mai frequentato una comunità viva di cristiani veramente autentici? (...) Se sì, avrai notato che vi sono molte funzioni in coloro che la compongono:

chi ha il dono di parlare e ti comunica realtà spirituali che ti toccano l'anima;
chi ha il dono d'aiutare, di assistere, di provvedere e ti fa meravigliare di fronte ai successi raggiunti a beneficio di quanti soffrono;
chi insegna con tanta sapienza da infonderti una nuovissima forza alla fede che già possiedi,
chi ha l'arte di organizzare, chi di governare;
chi sa capire quelli che avvicina ed è distributore di consolazione ai cuori che ne abbisognano.

Sì, tutto questo puoi sperimentare, ma soprattutto ciò che ti colpisce in una comunità così viva è l'unico spirito che tutti informa e ti sembra di sentir aleggiare e fa di quella originale società un unum, un solo corpo.

Anche Paolo, e lui in modo particolare, si è trovato di fronte a comunità cristiane vivissime, suscitate proprio dalla sua straordinaria parola. Una di queste era quella, giovane, di Corinto, nella quale lo Spirito Santo non era stato parco nel diffondere i suoi doni o carismi, come si chiamano. (...) Sennonché, questa comunità, fatta l'esperienza esaltante dei vari doni elargiti dallo Spirito Santo, aveva conosciuto anche rivalità o disordini, proprio fra coloro che ne erano stati beneficiati.

Fu necessario allora rivolgersi a Paolo, che era ad Efeso, per avere dei chiarimenti. Paolo non esita e risponde in una delle sue straordinarie lettere, spiegando come vadano usate queste grazie particolari. Egli spiega che esiste diversità di carismi, diversità di ministeri, come quello degli apostoli o dei profeti o dei maestri, ma che uno solo è il Signore da cui provengono. Dice che nella comunità esistono operatori di miracoli, di guarigioni, persone portate in modo eccezionale all'assistenza, altre al governo, come esiste chi sa parlar lingue, chi le sa interpretare, ma aggiunge che uno solo è Dio da cui hanno origine. (...)

Paolo, pur pensando a doni particolari che riguardavano proprio la vita della comunità, è dell'avviso che ogni membro di essa ha la sua capacità, il suo talento da far trafficare per il bene di tutti, e ognuno deve essere contento del proprio. (...)

Se ognuno è diverso, ognuno può essere dono per gli altri, e con ciò essere sé stesso e realizzare il proprio disegno di Dio nei confronti degli altri. E Paolo vede nella comunità, in cui i diversi doni funzionano, una realtà cui dà uno splendido nome: Cristo. Il fatto è che quell'originale corpo che compongono i membri della comunità è veramente il Corpo di Cristo. Cristo infatti continua a vivere nella sua Chiesa e la Chiesa è il suo corpo.

Nel battesimo, lo Spirito Santo incorpora in Cristo il credente, che viene inserito nella comunità. E lì tutti sono Cristo, ogni divisione è cancellata, ogni discriminazione è superata. Se il corpo è uno, i membri della comunità cristiana attuano bene il loro nuovo modo di vivere se realizzano fra loro l'unità, quell'unità che suppone la diversità, il pluralismo.

La comunità non assomiglia ad un blocco di materia inerte ma ad un organismo vivente con diverse membra. Il provocare le divisioni è, per i cristiani, fare il contrario di quanto devono. Come allora vivrai questa nuova Parola che la Scrittura ti propone?

Occorre che tu abbia un grande rispetto per le varie funzioni, per i doni e i talenti della comunità cristiana. Bisognerà che tu dilati il cuore su tutta la varia ricchezza della Chiesa e non solo della piccola Chiesa che frequenti e ti è nota, come la comunità parrocchiale o l'associazione cristiana cui tu sei legato, oppure il movimento ecclesiale di cui sei membro, ma della Chiesa universale, nelle sue molteplici forme ed espressioni.

Tutto devi sentir tuo, perché sei parte di questo unico corpo. E allora, come tieni in considerazione e proteggi ogni membro del tuo corpo fisico, così devi fare per ogni membro del corpo spirituale. (...) L'essenziale poi è che tu possegga quel carisma che, come annunzia Paolo, supera tutti gli altri ed è l'amore: l'amore per ciascun uomo che incontri, l'amore per tutti gli uomini della terra. È con l'amore, con l'amore reciproco, che le molte membra possono essere un sol corpo.

23-12-2008 di Chiara Lubich
fonte: Città Nuova

 Parola di Vita: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio"» Mt 5, 8

P. Luigi Vitulano, omi 

domenica 22 giugno 2014

Educare vuol dire anche lasciare un buon ricordo

Questo articolo di Pino Pellegrino, rivolto ai genitori è molto valido anche per chi si dedica ai ragazzi, giovani, alunni: animatori, insegnanti, catechisti. Se ognuno di noi ha un bel ricordo della propria infanzia, adolescenza, gioventù e vi ritorna spesso con nostalgia e gioia è perché qualcuno ha impresso nella nostra anima qualcosa di speciale. Perchè allora non  cerchiamo di lasciare un nostro buon ricordo? E' il miglior risultato del nostro operare per gli altri.


Lasciare un buon ricordo

Un buon ricordo, portato con noi fin dall'infanzia, può fare la nostra salvezza.
Ecco perché anche questa mossa non può essere affatto sottovalutata.



L'arte di essere indimenticabili!
"Il valore dei ricordi dell'infanzia" è il titolo di un libro nel quale l'autore, Norman B. Lobsens, riporta le risposte date alla domanda: "Qual è il più bel ricordo che hai dei tuoi primi anni?".
La prima risposta riportata è quella del figlio stesso dell'autore.
Dunque, alla domanda del padre, il figlio risponde: "Mi ricordo quando una sera eravamo soli in macchina e tu ti sei fermato a prendermi le lucciole".
Il bambino aveva cinque anni.
"Perché ti ricordi di questo?", gli domanda il padre.
"Perché non credevo che ti saresti fermato a prendermi le lucciole, invece ti sei fermato!".
 
Per un altro intervistato il più bel ricordo è "il giorno della scampagnata scolastica, quando mio padre - di solito freddo, dignitoso, impeccabile - si presentò in maniche di camicia, si sedette sull'erba, mangiò con noi e partecipò ai nostri giochi lanciando la palla più lontano di tutti. Più tardi scoprii che aveva rimandato un importante viaggio di affari per stare con me quel giorno".
Lasciare un buon ricordo! Anche questo è educare!

D'altronde, un ricordo lo si lascia sempre: in ognuno di noi vi sono tracce dei nostri genitori.
Basta sfogliare una qualsiasi biografia di uomini noti o meno noti per trovare riferimenti alla propria madre, al proprio padre.

Il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca (1898-1936), ad esempio, ricorda: "La mattina quando suonavano le nove, mia madre entrava nella stanza dove già lavoravo e, aprendo la finestra sul balcone, diceva sempre: 'Che entri la grazia di Dio!'".

Julien Green (1900-1998), scrittore francese, ricorda: "Nella mia vita la persona che ha contato di più è stata mia madre. Mi ha dato l'amore alla vita, il desiderio di capire, la tolleranza, soprattutto la tolleranza. Infine mi ha chiuso nel Vangelo, come si chiuderebbe un bambino nel cielo".

Simpatico è il ricordo di Luciano De Crescenzo, anche lui scrittore vivente: "Mia mamma praticava il 'nulla si compra e nulla si getta'. Conservava qualsiasi cosa fosse entrata in casa e riempiva i cassetti di oggetti completamente inutili. Su una delle scatole di spaghi aveva scritto: 'Spaghi troppo corti per essere usati'".

Meno noto è Roberto D'Agostino, lookologo, ma non meno bello il suo ricordo: "Chiara era il nome di mia madre. Tagliava e cuciva reggiseni, corazze di lastex, pieni di ganci, per donne panciute. Era una donna abbastanza allegra. Il più bel ricordo di mamma Chiara? La sua tenacia. Ad essere così ostinato l'ho imparato da lei!".
Insomma, basta essere figli per ricordarci della mamma.

Lo stesso vale per il papà.
Dolce è il ricordo del padre dello psicologo Giuseppe Colombero: "Quando ero bambino mio padre si alzava molto presto per andare a lavorare. Mi ricordo che prima di uscire di casa, si affacciava alla camera dove dormivamo noi piccoli e, stando sulla porta, diceva piano a nostra madre: 'Non preoccuparti di alzarti prima dei bambini per accendere e scaldare la cucina. L'ho già fatto io'. Quando ci alzavamo nostro padre non c'era più, ma quel fuoco, quel tepore parlavano di lui: ci diceva che c'era stato e aveva pensato a noi".

Forse ci stiamo rendendo conto che un buon ricordo è l'eredità più preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli. Un buon ricordo può decidere di un'esistenza.
Lo aveva capito bene lo straordinario scrittore russo Feodor Dostoevskij (1821-1881), il quale diceva: "Sappiate che non vi è nulla di più alto, e forte, e sano, e utile per la nostra vita a venire di qualche buon ricordo, specialmente se recato con voi fin dai primi anni dalla casa dei genitori. Uno di questi buoni e santi ricordi è forse la migliore delle educazioni. E quand'anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro cuore, potrebbe un giorno fare la nostra salvezza".

A questo punto viene spontanea la domanda: "Quale sarà il ricordo che i lettori lasceranno ai loro figli?".
La risposta vien dopo una considerazione: un tempo i poeti dicevano che Dio ci ha dato la memoria per poter avere le rose anche a Dicembre! Fiorivano ad Aprile e a Maggio, però, grazie alla memoria, le rose non sparivano dalla nostra mente.

Ebbene, chi ha scritto, è sicuro che se tanti genitori hanno avuto la buona volontà e l'impegno di leggere fin qui, i loro figli, domani, cresciuti, diranno: "Dio ci ha dato la memoria per poter ricordarci d'aver avuto un bravo papà ed una brava mamma!".

GLI OCCHI DEI FIGLI
Gli occhi dei figli non smontano mai di guardia e memorizzano per la vita intera.
Ecco la confessione di una figlia, ormai adulta, che ricorda alla madre ciò che lei compiva e che sempre le mandava un messaggio così forte, da costruirle l'impianto di fondo della sua educazione.
È una confessione che ci fa riflettere e porta a concludere che in ogni figlio vi è l'imprinting dei genitori. Nel bene e nel male.

"Mamma, quando pensavi che non ti stessi guardando, hai appeso il mio primo disegno sul frigorifero e ho avuto voglia di stare a casa per dipingere.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai dato da mangiare ad un gatto randagio ed allora ho capito che è bene prendersi cura degli animali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai cucinato apposta per me la torta del compleanno, ed ho compreso che le piccole cose possono essere molto speciali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando hai recitato una preghiera ed ho incominciato a credere nell'esistenza di Dio con cui si può sempre parlare.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai dato il bacio della buona notte e ho capito che mi volevi bene.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai sorriso e ho avuto voglia d'essere gentile con te.
Quando pensavi che io non ti stessi guardando, io guardavo ed ora ho voluto dire grazie per tutte le cose che hai fatto quando pensavi che non ti stessi guardando!
".

UN SEME
La cosa sa di incredibile. Eppure è vera. Alla fine del gennaio 2005 un insegnante d'agraria ha piantato un seme di palma risalente al tempo di Gesù Cristo (la datazione al carbonio 14 ha evidenziato che il seme risale a 1990 anni fa, con un margine di errore di 50 anni).
Il seme è stato rinvenuto a Masada, fortezza nel deserto che sovrasta il Mar Morto.
Nessuno credeva che da esso potesse germinare qualcosa.
Invece, ecco il miracolo che ha sbalordito tutti: "Sei settimane dopo - dice l'insegnante - ho visto spuntare qualcosa dalla terra del vaso nel quale avevo piantato il seme".
 
Attualmente, la palma da datteri è alta circa cinquanta centimetri ed ha una ventina di foglioline.

Getta un buon seme ed i miracoli seguiranno! 



Dal bollettino salesiano giugno 2014-06-14  
COME DON BOSCO
PINO PELLEGRINO:Le tredici mosse dell'arte di educare

venerdì 20 giugno 2014

Per chi dice di non saper pregare, una lettera



LETTERA SULLA PREGHIERA
di Mons: Bruno Forte)



Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.
Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.
Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? 
Ti rispondo: comincia a dare un po’ del tuo tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un’icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica…). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.
Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre – Madre nell’amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l’anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.
Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l’esperienza della vita vissuta nell’orizzonte dell’alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.
All’inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all’inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.
Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall’eloquenza silenziosa delle tue opere.
Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l’unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.
Verrà l’ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l’ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l’ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d’amore, inondata dalla gioia della presenza dell’Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.
Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d’uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d’acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall’amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l’audacia dell’amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.
Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l’amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l’unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell’amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l’iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.
Pregando, s’impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l’urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell’Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l’eternità.
Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.
(Mons. Bruno Forte)

giovedì 19 giugno 2014

Educare oggi: Forse i nostri tempi furono migliori di quelli di oggi?



Genitori e figli, Educatori e ragazzi 

Cosa vuol dire fare festa in famiglia? Cosa vuol dire armonia in famiglia? Cosa vuol dire educare oggi? Forse i nostri tempi furono migliori di quelli di oggi? Forse non ci chiediamo abbastanza che rendere acerba la vita dei nostri figli, dei nostri ragazzi non migliora la vita e il futuro. Da uno a dieci diamo un punteggio alla serenità e alla gioia nelle nostre famiglie e nei gruppi di catechesi…

Questo articolo di Pino Daniele ci aiuterà a capire come migliorare certi atteggiamenti e rapporti con i nostri figli e ragazzi, e far sì che lo stare insieme sia una festa.  Me lo auguro! Buona lettura e riflessione.

Fare festa di Pino Pellegrino

Diritto alla gioia
La gioia è un diritto del figlio. Un diritto assoluto perché senza gioia la vita è invivibile.
La psicologa Elisabetta Fiorentini è sicura: "La gioia è importante come il pane e la conoscenza, se non di più!".
La gioia è un diritto del figlio perché è educativa per natura sua: ci migliora sempre, mentre la tristezza ci peggiora sempre!
Finalmente, la gioia è un diritto del figlio perché è illecito rendere acerba la vita a chi in essa è stato introdotto senza domandargli il permesso.
Insomma, stiamo facendo un discorso serio! Serio ed impegnativo. La gioia non è un optional: è un pilastro dell'educazione che ci dà un ordine tassativo: "Genitori, siate felici!". No, non stiamo prendendo in giro il lettore. Essere genitori felici è possibile, anche in tempi di crisi come i nostri.
Ci limitiamo a due strategie (molte ne tralasciamo!) che possono portare serenità a casa nostra. 

Due strategie

Intanto, per prima mossa non usiamo la testa come portaspilli!

Possibile che educare debba essere un lavoro da minatore, da asfaltatore a ferragosto? È vero: educare non è facile, ma è esaltante. Nessuno stipendio milionario potrà compensare la gioia di un lavoro che, giorno dopo giorno, fa sì che chi nasce uomo diventi umano!
E poi, quando mai fu facile educare? Se avessimo più senso storico, piagnucoleremmo di meno!
Pensate: già nel quinto secolo avanti Cristo il grande filosofo greco, Socrate (469-399) si lamentava: "I nostri ragazzi amano il lusso, ridono dell'autorità, non si alzano in piedi davanti ad un anziano...".

Andiamo più indietro ancora: su un coccio babilonese, datato 2000 anni avanti Cristo, qualcuno ha scritto: "Questi giovani sono marci nel cuore, sono malvagi e pigri: dove arriveremo?".
Siamo arrivati al 2000 dopo Cristo e non fu, certo, tutto male!
Dunque buttiamo nel cestino della carta straccia i pensieri vestiti a lutto: "A scuola è un disastro!". "Non mangia!". "È allergico ai compiti". "È sempre così distratto!"...
 
Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) a ricordarci che: «Niente è più opprimente che incontrare genitori che si lamentano in continuazione e non si accorgono delle meravigliose opportunità che hanno a portata di mano». Assolutamente vero! L'acqua dei piagnistei non fa muovere la nave! 

La seconda strategia che ci fa meno tesi e che, di riflesso, rasserena i figli, è quella di non cadere in alcune trappole.

Trappola è il bambino da manuale.



I libri di psicologia programmano la giornata del piccolo: alle 9.05 il bagnetto; alle 14 la passeggiata; dopo un tot di minuti dal pasto, il ruttino...
"Ma il nostro fa il ruttino in ritardo... Sarà ammalato?".
"Il nostro bambino ha iniziato a parlare verso i due anni e non al termine del primo, come dice il manuale...: sarà normale?...". Suvvia: siamo saggi!
I genitori che cadono nella trappola del bambino da manuale fanno pensare alla storiella della Luna. Una sera l'insegnante di astronomia mostrava con il dito la Luna, particolarmente bella, ma gli studenti guardavano il dito, non la Luna!
I libri di psicologia sono il dito: non fermiamoci ad essi; è il bambino che conta! Vi sono genitori che hanno studiato pochissimo, ma hanno capito moltissimo. Sono quelli che hanno semplicemente guardato il bambino con tanto buon senso, senza tante ansie e preoccupazioni.

Trappola è il bambino televisivo.

Il bambino televisivo è sempre bello, pulito, non suda mai, non fa capricci, non ha bisogni, tranne quello di un po' di Nutella, del resto subito soddisfatto. Spenta la televisione, che delusione!
Il nostro bambino fa capricci, suda, urla... Occhio, signori! Il bambino televisivo è una 'bufalata', uno specchietto per le allodole, per far correre ad acquistare certi prodotti!

Trappola è il bambino del vicino.
"Lui sì che è bravo! Lui studia. Lui è educato...". Anche qui, buon senso, genitori! Il prato sempre verde del vicino potrebbe essere artificiale; la moglie che può sembrare una tacchina, in realtà è una semplice gallina! Buon senso diciamo, sì, perché ciò che noi pensiamo degli altri, lo stesso pensano gli altri nei nostri confronti. È l'irrazionalità dell'invidia!
In ogni casa vi è un capitale: è il nostro bambino normale! Godiamocelo!
Basta così. Sono cenni che, pur nella loro brevità, possono aiutare a comporre il quadro più bello del mondo: un padre, una madre e i figli che si guardano negli occhi e dicono: "Il paradiso siamo noi!".



I DIECI BAMBINI PIÙ FELICI DEL MONDO

1. Il bambino svegliato da due baci: quello di mamma e quello di papà.
2. Il bambino sudato, dopo aver tanto giocato.
3. Il bambino che si sente raccontare fiabe.
4. Il bambino che non è costretto a fare gli straordinari.
5. Il bambino abbracciato, senza essere soffocato.
6. Il bambino che qualche volta può andare in bicicletta, da solo, con il papà.
7. Il bambino affidato al Buon Dio.
8. Il bambino che non è trattato come le statuine del presepio che possono vedere la luce del sole solo quindici giorni all'anno.
9. Il bambino che non è obbligato a dimostrare d'essere un genio.
10. Il bambino che può accarezzare il gattino, toccare la neve, giocare con l'acqua, calpestare le foglie secche in autunno.

LE CAPRIOLE DEL SANTO
Un giorno una donna, guardando dalla finestra, vide un grande uomo, un asceta circondato dai bambini del villaggio.
Notò che l'uomo, tutto dimentico della sua dignità, faceva capriole per divertirli.
Fu così colpita da quello spettacolo che chiamò il suo bambino e gli disse: "Figlio, quello è un santo. Puoi andare da lui!". 


COME DON BOSCO di PINO PELLEGRINO
Da Bollettino Salesiano maggio 2014

sabato 14 giugno 2014

Genitori e figli: la difficile arte di educare alla fatica, al sacrificio




Ci sta a cuore che i nostri figli crescano liberi e forti: è la motivazione di questo articolo di Pino Pellegrino, pubblicato sul Bollettino Salesiano di aprile 2014. Insegnare ai figli che la fatica e il sacrificio sono utili al loro futuro di adulti e una buona ginnastica mentale e fisica come allenamento alle battaglie future.

A voi, genitori, buona lettura!


Il conformismo: la malattia di chi non ha il coraggio di andare contro corrente, ma si intruppa e va dove lo porta la massa.




 Non aver paura di far faticare i figli, di PINO Pellegrino
Sì, anche questa è una delle mosse fondamentali dell'arte di educare…Nessuno ci fraintenda! Non vogliamo vedere i ragazzi soffrire, non vogliamo tornare al pane nero.
Se parliamo di fatica, è esclusivamente perché non vogliamo ingannare i nostri figli: ci sta a cuore che crescano liberi e forti.



La grande truffa
"A mio figlio non deve mancare niente; non vogliamo che soffra quello che abbiamo sofferto noi, non vogliamo che faccia la nostra vita...": è la litania che ha contagiato, si può dire, tutti i genitori ultima generazione!
Litania insidiosissima, avvelenata!


Sia subito chiaro: non vogliamo tornare al lavoro dell'operaio e del contadino aggiogati alla fatica come buoi all'aratro!
Ciò che vogliamo dire è ben altra cosa.
Vogliamo ricordare che troppo benessere finisce con l'uccidere l'essere: il benessere può ingrandire il corpo, ma non liberare l'anima, non farla divenire se stessa! Vogliamo dire, poi, che viziare è sempre ingannare! La vita non è una cuccagna; non è una crociera, non tutti i giorni è Natale o il compleanno.


Sì, non è mai stato così saggio il nostro più noto pediatra del secolo scorso, Marcello Bernardi, come quando ha detto a tutto tondo: "Il pensiero di poter evitare tutte le battaglie, le delusioni, i dispiaceri, è un pensiero folle, perché la vita non è così. Anzi, è ben diversa: la vita è fatta di combattimenti!".
Insomma, educare è anche attrezzare alla fatica!


Educare è porre ostacoli proporzionati allo sviluppo fisico e psichico del figlio.






Parliamoci chiaro: che cosa succede a far crescere il figlio con il sedere nel burro? Non succedono che guai. Basta aprire gli occhi: ecco tanti nostri ragazzi con la grinta del pesce bollito o della mozzarella. Ragazzi che alla prima difficoltà si accasciano su se stessi, come cerini esauriti che si accartocciano. Ragazzi mollicci. Friabili. Pastafrolla. Ragazzi con le ossa di cristallo. Fiacchi.
Alcuni li hanno definiti 'ragazzi-peluche'. Gli psicologi parlano di 'psicastenia': mancanza di resistenza alla fatica.



Al termine di una conferenza qualcuno ha domandato al sociologo: "Secondo lei la nostra è davvero un generazione 'bruciata'?". Il conferenziere, pronto: "Macché 'gioventù bruciata'!: 'gioventù bollita'!".
Adesso è chiaro perché parliamo di fatica. Tutto ciò che è troppo dolce e caramelloso è contro l'Uomo, contro il suo emergere.
Non è forse vero che senza gli scogli le onde non salirebbero in alto?
Parliamo di fatica perché è dalla sua assenza che nascono le quattro più antipatiche malattie della personalità.


Malattie della personalità:




Il conformismo: la malattia di chi non ha il coraggio di andare contro corrente, ma si intruppa e va dove lo porta la massa.
che decidano e vivano gli altri!
Il minimismo: la malattia di chi vive seduto, senza impegnarsi. La malattia del sei in tutte le materie, anche nella vita. L'anguillismo: la malattia di chi sgattaiola via, si nasconde, ha paura di mostrarsi. Il 'pilatismo': la malattia di chi si lava le mani: di chi guarda dalla finestra la storia passare per strada e lascia che decidano e vivano gli altri!


A questo punto si comprende perché lo psicologo americano William James (1842-1910) era solito esortare i suoi studenti universitari: "Fate tutti i giorni due cose solo perché vi piacerebbe non farle!". Applausi!
Il ragazzo che ha la fortuna di incontrare la pedagogia della fatica, sarà un ragazzo capace di compiere il proprio dovere, un ragazzo che tiene duro anche quando la vita mostra i denti; un ragazzo che non abbandona la partita.Un ragazzo prezioso che impreziosisce il mondo!



Bentornato sacrificio!


È pericoloso stare a lungo senza soffrire.
Una giornata senza sacrifici è una giornata di sconfitte: la volontà si allenta; il nemico (pigrizia, egoismo, animalità...) troverà più facile vincere.
Che fare, dunque?
La risposta è chiara: riaprire le porte al sacrificio!


I sacrifici possono dividersi in due categorie: i passivi e gli attivi.
I primi sono quelli imposti (per questo li chiamiamo 'passivi') dalla vita stessa: il lavoro, lo studio, i disturbi di salute, la convivenza umana, le condizioni climatiche...
I secondi sono i sacrifici cercati, voluti, preparati da noi stessi.
Qualche esempio?


Saltare giù dal letto elettricamente, al primo squillo della sveglia; mangiare le rape che non piacciono; bere un caffè amaro; soffrire il mal di denti senza dirlo a nessuno; aspettare che tutti si siano serviti; praticare il digiuno televisivo; non fare telefonate chilometriche...
Forse qualcuno potrà anche sorridere.
Eppure son proprio questi preziosi sacrifici che tengono a galla la volontà, perché possa sopportare il prezzo del vivere umano.




Nessuno sorrida: il sacrificio non è un'idea che poteva valere prima di Freud. Anche dopo Freud deve restare nella nostra pedagogia



• Deve restare perché il comodismo è un inganno, come abbiamo detto: la vita non è zucchero filato.
• Deve restare perché "chi non sa negarsi qualcosa di lecito, difficilmente potrà evitare le cose proibite" (Toth Thiamer, scrittore ungherese vivente).
• Deve restare perché (la riflessione è finissima!) "una grande felicità ha bisogno di un grande ostacolo" (Robert Musil, scrittore austriaco: 1880-1942).


Tra gioia e sacrificio, infatti, vi è un rapporto di stretto gemellaggio. La felicità nasce sulla pianta che ha radici a forma di croce, si dice in Africa. 

 D'altronde non è forse vero che una vita troppo facile diventa una vita noiosa? Dobbiamo dare ragione a Gandhi (1869-1948): "La storia del mondo sta lì a dimostrare che non vi sarebbe alcunché di romantico nella vita, se non esistessero i rischi".


LE CITAZIONI
"Troppo benessere genera il malessere. Genera i gaudenti scontenti. Genera il disagio dell'agio" (Paolo Crepet, psichiatra).
"Prendete un circolo, accarezzatelo: diventerà vizioso" (Eugène Ionesco, commediografo romeno: 1909-1994).
"La mamma troppo valente fa la figlia buona a niente" (Proverbio).


LA VITE E IL POTATORE
Un giorno la vite disse al potatore: "Perché mi stai venendo incontro con quelle forbici? Forse mi vuoi potare come si faceva al tempo d'una volta? Buttale via: non sai che adesso i tempi sono cambiati!?". "Già, rispose il padrone: a pensarci bene non hai torto: non siamo più ai tempi d'una volta!".

E poiché i tempi erano cambiati, non la potò. E così in autunno la vite non ebbe uva. Come al solito, vennero gli amici per assaggiare il vino nuovo. "Non c'è vino nuovo. I tempi sono cambiati!" disse, sconsolato, il proprietario della vigna.






COME DON BOSCO di PINO PELLEGRINO:  da Le tredici mosse dell'arte di educare
Bollettino salesiano aprile 2014