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lunedì 29 settembre 2014

Figli troppo coccolati da genitori troppo apprensivi?





COME DON BOSCO di Pino Pellegrino   dal Bollettino salesiano di Settembre 2014





Le malattie dell'educazione

2. La tarantolite

Stiamo presentando quelle che ci sembrano le quattro principali malattie dell'educazione, oggi particolarmente diffuse in Italia.
Dopo aver parlato della figliolite, è la volta della tarantolite

La tarantola è - lo sappiamo tutti - un ragno con zampe lunghe e corpo peloso di color nero: brutta bestia che irrita la pelle e porta istintivamente a graffiarci.
I genitori ammalati di 'tarantolite' hanno il cervello 'graffiato' da mille problemi: "Il figlio sarà o non sarà sano?". "Dottore, la vaccinazione gli porterà delle complicazioni?". "Non ha ancora fatto certe domande, sarò normale?". "Non mangia il pesce, cosa fare per dargli una dieta integrale?". "Non ha ancora iniziato a parlare: sarà intelligente?". 




A tanti interrogativi possiamo aggiungerne pure uno noi: «È proprio necessario complicarci così la vita?» Grazie a Dio, i figli hanno più risorse di tutte le nostre ansie, di tutte le nostre preoccupazioni!
E poi, forse che la barca si mette a galleggiare sulle nostre lacrime? La pecora che bela perde il boccone, recita il proverbio. Dunque è necessario prendere di petto la 'tarantolite' e vincerla!
I cinesi hanno un bellissimo detto: «Che gli uccelli dell'aria e le preoccupazioni volino sulla vostra testa non potete impedirlo, ma potete evitare che vi facciano il nido».
Ebbene, perché i mugugni non facciano il nido nella nostra mente, la via migliore è quella di un pacato ragionamento. Allora ragioniamo sui piagnistei più diffusi e più pericolosi, oggi, per l'educazione.


Il primo mugugno è quello dell'impossibilità dell'educazione.


"I nostri ragazzi vanno a ramengo, chi ancora li può formare? La televisione ce li rovina, la scuola non ci aiuta, la società ce li guasta"... e giù pensieri vestiti a lutto!!

Ragioniamo, come abbiamo detto. Quando mai è stato facile educare?Pensate: già un grande filosofo greco, Socrate (469-399 a.C.) si lamentava: "I nostri ragazzi amano il lusso, ridono dell'autorità, non si alzano in piedi davanti ad un anziano...". Andiamo più indietro ancora: su un coccio babilonese, datato 2000 anni avanti Cristo, leggiamo: "Questi ragazzi sono marci nel cuore, sono malvagi e pigri. Dove arriveremo?".
Siamo arrivati al 2000 dopo Cristo, e non fu tutto male!
Se avessimo più senso storico, tante 'tarantole' non farebbero il nido nella nostra mente! 



Oltre al mugugno dell'impossibilità di educare, oggi, altri pensieri neri agitano il cervello di troppi genitori.




Si tratta di vere e proprie trappole, come le tre che seguono:
- La trappola del bambino da manuale.
I libri di psicologia stabiliscono le tappe della crescita del bambino. "Il mio non rispetta la tabella di marcia! Abbiamo in casa un ritardato!?"
- La trappola del bambino televisivo.
Il bambino televisivo è una gioia di bambino! Non suda, non fa capricci, non ha bisogni, tranne quello di un po' di Nutella, peraltro subito soddisfatto. Spenta la televisione, che delusione! "Il mio...."
- La trappola del bambino del vicino.
«Lui sì che è bravo! Lui studia, lui ubbidisce, lui è educato...!»
Suvvia, siamo saggi! Il bambino da manuale esiste solo sui libri. Il bambino televisivo è un'astuta invenzione. Il bambino della famiglia che ci sta di fronte è un'illusione, come quella di chi pensa che la moglie del vicino sia una tacchina, mentre, in realtà, è una semplice gallina!


Il lettore ha capito il messaggio del mese:
la vita potrebbe essere la prova generale del paradiso; troppe volte, per colpa nostra, la facciamo diventare un purgatorio.
Sì è tempo di mettere fine alle infinite 'gnegnere' che distruggono l'educazione. Su un punto non vi è discussione tra pediatri, pedagogisti e psicologi: i genitori lagnosi sono sempre genitori disastrosi. 

La pedagogista Elisabetta Fiorentini non ha dubbi: "La gioia è importante come il pane e la conoscenza, se non di più!".
Il famoso pediatra americano Thomas Berry Brazelton comanda: "Genitori, vi ordino: siate felici!". Il pedagogista Giuliano Palizzi conclude: "I genitori che non si divertono ad educare i figli, hanno sbagliato mestiere!". 


APPUNTI SUL FRIGORIFERO
È da saggi scrivere qualche volta sulla bocca: 'Chiusa per nervi'.
Il bambino è persona. Non uno che mangia e si libera.
Il baccano non dà mai una mano.
Dove c'è allegria è sempre estate.
Un sorriso fa fare il doppio di strada di un brontolio!
La vita sarebbe semplice, se non la complicassimo.
Non viviamo cento anni e ci 'tarantoliamo' per mille. Dov'è finito in buon senso? 


MEDITATE GENTE!

"La madre serena è come il miele per il bambino" (Sigmund Freud, fondatore della psicanalisi).
"I sorrisi arrivano dritti al cuore senza passare per la trafila del cervello".
"Un bambino felice, quando crescerà, non avrà bisogno di droga, di alcol, non fumerà trenta sigarette al giorno" (Silvio Ceccato).
"Vi è un piagnisteo sui pericoli dei bambini che rasenta l'idiozia!" (Domenico Volpi).
"Non capiremo mai abbastanza quanto bene è capace di fare un semplice sorriso" (Madre Teresa di Calcutta).

sabato 27 settembre 2014

martedì 9 settembre 2014

L'ORATORIO OGGI: è ancora un ponte tra strada e Chiesa?




L'Oratorio: vera opportunità.



...mi sono trovato nella situazione di dover rispondere ad un domanda che a qualche lettore potrebbe apparire assurda, ma che in realtà non lo è se si considera la quasi totale assenza di questa tradizione: “Che cos’è l’Oratorio?”.

Tra le principali “ansie” pastorali che un parroco vive vi è quella della missione di evangelizzazione dei giovani. Essi sono la “pupilla dell’occhio” di una comunità parrocchiale e sono coloro che maggiormente risentono della crisi che, nel nostro tempo, colpisce l’annunzio del Vangelo.

 Cogliere, ancora oggi, la sfida dell’evangelizzazione attraverso la realtà dell’Oratorio è senza dubbio coraggioso. Lo è ancor di più lì dove non esiste quasi nessuna esperienza di Oratorio e dove la maggior parte delle strutture non sono state progettate e realizzate per questa finalità.

Il desiderio e la voglia di creare una “famiglia” attorno a questa felice opportunità superano abbondantemente le possibili difficoltà iniziali. Ed è così che si incominciano a diffondere e delineare belle realtà di Oratorio in quella parte d’Italia dove, forse per troppo tempo, si è maggiormente diffusa la devozione popolare a discapito di questo “antico, ma sempre nuovo” strumento pastorale.

In diversi casi mi sono trovato nella situazione di dover rispondere ad un domanda che a qualche lettore potrebbe apparire assurda, ma che in realtà non lo è se si considera la quasi totale assenza di questa tradizione: “Che cos’è l’Oratorio?”

Ho provato nel tempo a darmi una personale risposta per soddisfare nel modo migliore il desiderio altrui di conoscenza. L’Oratorio non è solo “il luogo fisico in cui vanno a giocare i bambini”. Ridurre l’Oratorio a una così semplicistica definizione mortificherebbe l’impegno e la passione di tanti animatori e catechisti che con grande entusiasmo si mettono al servizio del prossimo.

L'Oratorio, nella sua accezione più vera e profonda, è sinonimo di accoglienza, mano tesa, incontro, ascolto, scuola di vita, servizio, coerenza, rispetto, gruppo, squadra, difficoltà, maturità… potrei continuare all’infinito per delineare l’arcobaleno di atteggiamenti, valori e sentimenti che si costruiscono attorno a questa realtà.

Chi pensa che l’Oratorio esista solo dove ci sono campetti, saloni e teatri sta perdendo l’occasione di sperimentare emozioni ed espressioni che nascono anche solo per strada o nella piazza, perché l'Oratorio non è solo un luogo, ma è comunione di persone, esperienze, abilità, età.

Fatta questa premessa e considerando la mia personale esperienza di parroco, desidero raccontare come l’Oratorio è diventato oggi non soltanto strumento di pastorale giovanile, ma anche casa di tutti, dal più piccolo al più grande. Volgere lo sguardo indietro non è sempre positivo, ma nel nostro caso può essere utile considerare il cammino fin qui fatto, guardando al punto di partenza, per ricordarsi del crescente bisogno di dare spazio ai giovani in una terra che, fino a una decina d’anni fa, dell’Oratorio conosceva, forse, solo il nome.

Nato dalle ceneri di un asilo dismesso, per diventare operativo l’Oratorio “Giovanni Paolo II” di Olivarella (ME) ha richiesto l’accensione di un mutuo le cui rate sono state pagate grazie alla disponibilità di un centinaio di famiglie che mensilmente, per tre anni, hanno partecipato con il contribuito di una quota.
Tutti insieme abbiamo vissuto la sua inaugurazione alla presenza del Vescovo, l’inizio delle attività, le soddisfazioni e le difficoltà… oggi, dopo diversi anni, il centro raccoglie circa duecento tesserati: non solo giovani dai 6 ai 22 anni, ma anche adulti e anziani che tra le mura dell’Oratorio si sentono a casa loro.

Un luogo in cui si cresce umanamente, attraverso il gioco e la condivisione, ma anche cristianamente, con i cammini di formazione che la parrocchia promuove. Una realtà che nel tempo si è positivamente fatta spazio nel territorio e che contribuisce a contrastare gli equilibri negativi: i ragazzi hanno finalmente un punto di riferimento e non stanno più in strada, gli anziani combattono la solitudine incontrandosi e giocando a carte e le famiglie si ritrovano per condividere momenti comunitari di festa. C’è posto davvero per tutti ed in particolare per quelle persone che, per utilizzare il linguaggio di Papa Francesco, consideriamo come appartenenti alle “periferie” umane della storia.

Se dovessi fare una valutazione nella veste di direttore del Servizio Diocesano di Pastorale Giovanile e del Coordinamento degli Oratori posso decisamente affermare che questa è davvero una felice primavera. Essa vede, ormai dal 2007, un continuo fiorire di nuove realtà. Solo nella diocesi di Messina circa venticinque parrocchie hanno avviato un Oratorio partendo da zero, per non dire dal nulla.

Ogni anno se ne aggiungono altre chiedendo corsi di formazione per avviare l’attività. Siamo all’inizio di un nuovo cammino. Un cammino tanto bello quanto ripido. Ma sembra che si stia diffondendo sempre di più la consapevolezza che l'Oratorio può essere davvero il "ponte tra la strada e la Chiesa". Allora non resta che avere coraggio e osare, dedicare del tempo e far crescere la passione, perché l’orizzonte è veramente sereno!

Padre Dario Mostaccio
Diocesi di Messina Lipari Santa Lucia del Mela
http://www.donboscoland.it(Quaderni Cannibali) Luglio 2014




venerdì 5 settembre 2014

lunedì 28 luglio 2014

LA FIGLIOLITE. Genitori e figli: inquinamento nella formazione (valido anche per i catechisti/e)



       Le malattie dell'educazione di Pino Pellegrino
 
L'acqua può essere inquinata, l'aria può essere inquinata, il cibo può essere inquinato: tutto può essere inquinato!
Anche l'educazione. L'inquinamento pedagogico nasce da alcune malattie da cui possiamo tutti essere contagiati.
Le più diffuse, oggi, in Italia ci pare siano quattro: la 'figliolite', la 'tarantolite', la 'sclerocardia' (la durezza di cuore) e il rachitismo psicologico. Le vedremo, ad una ad una, nel nostro appuntamento mensile. 


La figliolite

La 'figliolite' è la malattia dei genitori che stravedono per i figli, la malattia di genitori che non si decidono mai a tagliare il cordone ombelicale.
Erano ammalate di 'figliolite' le madri di Ronco Scrivia (Alessandria) che nel novembre 1999 divennero furibonde ed insultarono l'allenatore di calcio che, giustamente, aveva richiamato i loro figli.
Era ammalata di 'figliolite' quella mamma che a Porto Viro (Rovigo) nel dicembre 1999 aggredì la dirigente scolastica, la prese per i capelli, strattonandola e spintonandola perché ritenuta colpevole d'aver sospeso per un giorno il figlio che aveva notevolmente disturbato le lezioni.
Era ammalata di 'figliolite' quella mamma che per cancellare le prove della colpevolezza del figlio, bruciò ben sette capolavori del famoso pittore spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), rubati dal ragazzo al museo di Rotterdam (Olanda) nel luglio 2013.
Era ammalata di 'figliolite' quella madre dei Parioli di Roma che, convocata dall'insegnante per avvertirla che se non si fosse impegnata di più, la figlia avrebbe rischiato la bocciatura, le urlò in faccia. "Questa è una scuola privata! Io pago. Lei non deve seccarmi!".
Quattro esempi di una malattia (la 'figliolite') che produce solo guai!



Il figlio troppo protetto, infatti, si illude d'essere infallibile, 

perfetto, insindacabile: ed ecco la premessa di un futuro 

despota, di un futuro prepotente. Questo il primo danno 

della 'figliolite'.




 Il secondo non è meno pesante. Dalla malattia pedagogica di cui stiamo parlando nascono i cosiddetti 'figli prolungati': i figli che non si decidono mai a lasciare la famiglia, per andarsene a vivere in proprio. 


Il fenomeno è tipicamente italiano. In Inghilterra e negli Stati Uniti i figli salutano e se ne vanno ben prima di sposarsi, spesso quando iniziano a frequentare l'Università, già tra i sedici ed i diciotto anni. In Francia l'82% dei ragazzi tra i venti ed i trent'anni vive per conto proprio, in Germania la percentuale scende di poco, attestandosi al 74%.

 In Svezia a sedici anni i ragazzi vengono mandati fuori casa (forse anche troppo violentemente!) in Italia no! Qui abbiamo figli che a 35-40 anni (!) continuano a riscaldarsi al focolare del tetto natio.
E così, standosene tranquilli in casa, i ragazzi ritardano sempre più il momento di crescere e maturare.
Un'inchiesta condotta pochi anni fa ha rivelato che il 46% dei ragazzi italiani non ha voglia di diventare adulto. Sono ragazzi culturalmente più preparati di qualche generazione fa, ma con un forte ritardo per quanto riguarda la maturazione umana.
Ragazzi incapaci di farsi carico di sé. Ragazzi insicuri. Ragazzi bonsai!


Mamme, per favore, tagliate il cordone ombelicale.
La psicologa Maria Rosa De Rita ci dà questo consiglio: "A 27 anni, al massimo, buttateli fuori di casa, come ho fatto io. Un giorno vi ringrazieranno!".
Se non possiamo arrivare a tanto (scrivere è facile, il momento è difficile: ne siamo ben consapevoli!) d'ora in poi, almeno, quando a sera torna a casa il 'cucciolone' di 35 anni, non sforniamogli più i sofficini.



Sì, perché, diciamocelo chiaro: non è forse vero che talora siamo proprio noi a non volere che il figlio se ne vada di casa?
Siamo noi che, a conti fatti, non abbiamo imparato ad amarlo.
Chi ama i fiori non li calpesta, né li coglie per sé, ma li lascia crescere, liberi e belli, nel campo.

In termini più pedagogici: amare davvero il figlio è liberarlo dal nostro bisogno di aiuto!
Amare il figlio è desatellizzarlo. 



BOCCIATI IN AUTONOMIA
 
I bambini italiani sono bocciati in autonomia. Lo rivelano serie ricerche che hanno interessato molti Paesi europei e diversi Stati del mondo. Da tali ricerche risulta che appena l'8% dei bambini italiani va e torna a casa da scuola da solo, di fronte al 25% dei coetanei inglesi ed il 76% dei tedeschi.È una delle tante conseguenze della nostra tipica 'figliolite' che rimanda sempre più, come abbiamo detto, l'autonomia del figlio. Accompagnare il piccolo a scuola, infatti, è impedirgli di acquistare sicurezza, è indebolirgli l'autostima, è impedirgli di integrarsi e di rafforzare i legami con le persone del quartiere.
È vero che i pericoli dei bambini non sono un'invenzione. Però è anche vero il proverbio: "Mai la catena ha fatto buon cane". Più vero ancora è quello che ci manda a dire un esperto del mondo giovanile d'oggi, Domenico Volpi: "Vi è in Italia un piagnisteo sui pericoli dei bambini che rasenta l'idiozia!".
Parole decise che ci invitano a liberarci dal cosiddetto 'complesso del bagnino' che vive con il terrore che qualcuno anneghi! 

QUESTO DICO AL FIGLIO ADOLESCENTE

• Non giudicare una persona dalla piega dei pantaloni.
• Meglio gentile nei modi che elegante nella moda.
• Se non alzi gli occhi, crederai d'essere sul punto più alto.
• I pugni non hanno cervello.
• La vita non è una scatola di cioccolatini.
• Ridi di te stesso: avrai materia per stare allegro tutta la vita! 


APPUNTI SUL FRIGORIFERO

• L'educazione si salva salvando gli abbracci, non le urla.
• La mamma troppo valente fa la figlia buona a niente.
• In ogni sorriso vi è un gol strepitoso.
• Chi non ha mai sbagliato, ben poco ha combinato.
• Prima di parlare è bene chiedere permesso all'esempio! 

Bollettino Salesiano Luglio-Agosto 2014 COME DON BOSCO
Le immagini sono riportate dal Web

Cristiani in Iraq: uccisi, depredati...cacciati dalle città




"Non ci sono più cristiani a Mosul"


Uccisi, depredati o, nel migliore dei casi, cacciati da una città che abitavano da (almeno) 1.400 anni: è il destino dei cristiani di Mosul, la seconda città dell'Iraq, travolta dall'offensiva dei terroristi dell'Isis (Stato islamico dell'Iraq e del Levante), il gruppo islamico radicale che - nato e cresciuto in Siria grazie all'incancrenirsi della guerra civile e all'inerzia dell'Occidente - nelle ultime settimane sta conquistando porzioni crescenti dell'antica Mesopotamia. Prendendo di mira, è bene ricordarlo, non solo i cristiani ma tutte le minoranze, a partire dai musulmani sciiti. 

Con un'azione che ricorda i peggiori pogrom della storia, i terroristi dell'Isis e le milizie sunnite che danno loro man forte hanno addirittura segnato le case dei cristiani di Mosul con il corrispettivo arabo della lettera N, iniziale di Nazareni, il nome con cui i seguaci di Gesù sono chiamati spesso nel mondo musulmano arabo. Ai tremila che avevano resistito durante gli anni, già molto difficili, della guerra civile post-Saddam, è stato intimato di andarsene. Non pochi, naturalmente, quelli che sono stati sommariamente uccisi o sono spariti nel nulla. Distrutti o danneggiati anche molti edifici, tra cui il palazzo episcopale dei siro-cattolici e l'antico monastero di Mar Behnam, da cui i monaci sono stati brutalmente cacciati (così come molte sono state anche le moschee sciite distrutte). 

«Ormai nessun cristiano si trova più a Mosul - ha dichiarato lunedì a Radio Vaticana mons. Saad Syroub, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad -. Le famiglie fuggite sono in una situazione molto difficile, perché non hanno niente: sono state derubate della loro macchina, dei soldi, della casa, del lavoro. E non possono tornare. Quindi la situazione è molto critica; c’è bisogno di un intervento urgente per aiutare queste famiglie». 

Proprio sulla necessità di un aiuto concreto e immediato insiste un testo firmato da tutti i vescovi iracheni (che rappresentano il mosaico di confessioni cristiane presenti nel Paese) e diffuso martedì scorso. Con una nemmeno troppo implicita condanna della latitanza delle istituzioni di Baghdad e dell'Occidente, i vescovi scrivono: «Attendiamo azioni concrete per rassicurare il nostro popolo, e non soltanto comunicati stampa di denuncia e di condanna: sostegno finanziario agli sfollati che hanno perduto tutto, pagare immediatamente i salari dei dipendenti statali, indennizzare tutti coloro che hanno subito perdite materiali e assicurare alloggio e continuità nella erogazione dei servizi sociali e scolastici per le famiglie che potrebbero dover trascorrere lungo tempo lontano dalle proprie case». 

Se in questo momento prevalgono le necessità materiali resta, sullo sfondo, la preoccupazione per il destino che attende i cristiani nel lungo periodo, in Iraq così come in molti altri Paesi del Medio Oriente.

Dal 2003, anno dell'invasione decisa da George W. Bush, il numero dei cristiani iracheni è sceso da quasi un milione e mezzo a circa 450mila. A Mosul erano 130mila nel 2003, erano già scesi a 10mila un anno fa e ora sono praticamente azzerati. Trend analoghi si registrano in altri Paesi della regione, anzitutto in Siria. 




È anche vero che questi tragici fatti sembrano avere attivato, più che in passato, la solidarietà dei musulmani iracheni nei confronti dei loro concittadini. Come fa notare in un'intervista lo scrittore iracheno Younis Tawfik, da anni esiliato in Italia, «i cristiani iracheni di Mossul hanno più diritto di noi alla loro terra e alle loro case. Abitano la città da prima dell’arrivo dell'islam e noi abbiamo il dovere di proteggerli». A Baghdad domenica scorsa circa duecento musulmani si sono riuniti davanti alla chiesa caldea di San Giorgio per esprimere la propria solidarietà ai cristiani. Molti innalzavano cartelli con la frase «kulluna masihiyyun», siamo tutti cristiani, e con una “N” finale. Anche sui social network si diffondono campagne di solidarietà. 

Intanto anche il Papa non fa mancare la sua voce e la sua vicinanza: martedì ha ricevuto il nunzio apostolico in Iraq, mons. Giorgio Lingua, mentre domenica - durante l'Angelus - ha ricordato la situazione dei cristiani: «La violenza si vince con la pace», ha detto con parole che in questo momento sono drammaticamente attuali in molti luoghi del mondo. 

da  http://www.popoli.info/



martedì 8 luglio 2014

Lampedusa a un anno della visita di Papa Francesco

Attualità...


A un anno di distanza della visita di papa Francesco a Lampedusa, continuano le stragi nel mare, aumentano i soliti barconi con centinaia di uomini a bordo, si pensa a nuovi centri di accoglienza. Tutto questo fa male alla sensibilità umana e cristiana,ma non tutti la pensano così e Ci sarebbe da gridare ancora una volta: VERGOGNA!!

Vergogna Europa, ricca e opulenta, egoista e potente, ma impotente, insensibile alle sofferenze umane. Quando si indurisce il cuore, l’anima vola, non c’è più e questo vale per tutti credenti e non credenti: senza cuore, senza sensibilità per i fratelli diventiamo degli assassini.



Propongo alla sensibilità di tutti questo articolo di Lorena Bianchetti pubblicato in A SUA IMMAGINE


Visto da me


Per una cultura dell’incontro  di Lorena Bianchetti 



Un anno fa Papa Francesco visitava Lampedusa. Ricordo quel giorno: guardai la diretta

in televisione con un foglio in mano e una penna per seguire, anche professionalmente,

il suo discorso, ma le sue parole furono così dirompenti e tremendamente vere da non avere

bisogno di appunti per ricordarle.

 Arrivarono dritte, descrivendo con nome e cognome quella globalizzazione dell’indifferenza incapace di farci sentire l’altro. “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri” e quelle bolle di sapone “che sono belle, ma non sono nulla, che sono l’illusione del futile, del provvisorio” ci hanno anestetizzato così tanto il cuore da farci girare dall’altra parte alla vista di un fratello mezzo morto sul ciglio della strada.



Non sappiamo più piangere per l’altro, non sappiamo ascoltare più il grido e il lamento dell’altro e spesso riusciamo, con ipocrisia, a liquidare la notizia al telegiornale della morte di un immigrato con l’espressione “poverino”.



La sofferenza dell’altro non è affare nostro e anzi distoglie dalla corsa malata a un potere

che vuole gongolare sempre più un narcisismo imperante piuttosto che servire. “Parole dure,

come cazzotti”, così definiva Gian Antonio Stella quanto detto da Papa Francesco all’indomani della visita a Lampedusa nell’editoriale del Corriere della sera.



 E quella richiesta di perdono ai morti nel mare è stato uno schiaffo alle coscienze di

chi deve collaborare perché il Mediterraneo, da culla di civiltà, non diventi un cimitero. Nessun

paese può affrontare il fenomeno migratorio da solo, serve collaborazione tra gli stati e i media che, come scrisse il papa nella giornata del rifugiato, sono chiamati a smascherare quegli

stereotipi che non informano correttamente.



Sono testimonial dell’Unhcr, (Alto commissariato Onu per i rifugiati), sento particolarmente questo argomento: tutte le persone che lasciano il proprio paese scappano dalla morte per cercare una nuova vita uccisa, quando va bene, dal pregiudizio, dall’indifferenza e dall’emarginazione.



A Lampedusa si lavora tanto, con il cuore, per accogliere questi fratelli ma la gente del

posto non può essere lasciata sola. Serve l’impegno di tutti per fare in modo che la

cultura dello scarto, prodotta dal relativismo caratterizzante questo nostro periodo storico,

sia ribaltata e trasformata nella cultura dell’incontro e dell’amore.
Lorena Bianchetti, giornalista e conduttrice televisiva

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue?
 DAL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO A LAMPEDUSA





domenica 6 luglio 2014

Una piccola provocazione per i catechisti (con tanto affetto): ma il catechista non è solo questo...forse anche alcuni sacerdoti hanno qualcosa da rivedere



 Condiviso da You Tube ( se vuoi commenta e dì la tua)

Mi è stato commissionato un video per provocare una piccola riflessione sull'attuale metodologia catechistica della mia diocesi.
Troppo spesso il catechismo viene visto come finalizzato ai sacramenti, un onere da portare avanti, un affare privato dei catechisti.
Io penso che per attenuare la fatica ed ampliare i frutti occorra che TUTTA LA COMUNITA' PARROCCHIALE si senta partecipe; vengano coinvolte LE FAMGLIE dei bambini; si consideri il "catechismo" come un PERCORSO DI VITA, da 0 a 200 anni.
Chiedo scusa all'autore dei disegni se mi sono permesso di modificare le sue bellissime vignette senza la sua autorizzazione, ma pur avendolo cercato non sono riuscito a trovarlo. Le tavole le ho tratte da elledici.org, dove potete trovarne altre divertenti.
Le canzoni di sottofondo sono "Occhietti furbetti" di Stefano Rava (in una versione da me ritoccata) e "Ventiquattro piedi siamo" di Michele Paulicelli tratta dal musical "Forza Venite 

mercoledì 25 giugno 2014

Comunità, gruppi vivi di cristiani...




Come ci comprotiamo quando facciamo parte di una comunità o di gruppi impegnati in società o semplicemente in parrocchia, in famiglia? Siamo tutti per uno e uno per tutti?

L'amore reciproco crea una comunità viva
 di Chiara Lubich
 

Un solo corpo

Hai mai frequentato una comunità viva di cristiani veramente autentici? (...) Se sì, avrai notato che vi sono molte funzioni in coloro che la compongono:

chi ha il dono di parlare e ti comunica realtà spirituali che ti toccano l'anima;
chi ha il dono d'aiutare, di assistere, di provvedere e ti fa meravigliare di fronte ai successi raggiunti a beneficio di quanti soffrono;
chi insegna con tanta sapienza da infonderti una nuovissima forza alla fede che già possiedi,
chi ha l'arte di organizzare, chi di governare;
chi sa capire quelli che avvicina ed è distributore di consolazione ai cuori che ne abbisognano.

Sì, tutto questo puoi sperimentare, ma soprattutto ciò che ti colpisce in una comunità così viva è l'unico spirito che tutti informa e ti sembra di sentir aleggiare e fa di quella originale società un unum, un solo corpo.

Anche Paolo, e lui in modo particolare, si è trovato di fronte a comunità cristiane vivissime, suscitate proprio dalla sua straordinaria parola. Una di queste era quella, giovane, di Corinto, nella quale lo Spirito Santo non era stato parco nel diffondere i suoi doni o carismi, come si chiamano. (...) Sennonché, questa comunità, fatta l'esperienza esaltante dei vari doni elargiti dallo Spirito Santo, aveva conosciuto anche rivalità o disordini, proprio fra coloro che ne erano stati beneficiati.

Fu necessario allora rivolgersi a Paolo, che era ad Efeso, per avere dei chiarimenti. Paolo non esita e risponde in una delle sue straordinarie lettere, spiegando come vadano usate queste grazie particolari. Egli spiega che esiste diversità di carismi, diversità di ministeri, come quello degli apostoli o dei profeti o dei maestri, ma che uno solo è il Signore da cui provengono. Dice che nella comunità esistono operatori di miracoli, di guarigioni, persone portate in modo eccezionale all'assistenza, altre al governo, come esiste chi sa parlar lingue, chi le sa interpretare, ma aggiunge che uno solo è Dio da cui hanno origine. (...)

Paolo, pur pensando a doni particolari che riguardavano proprio la vita della comunità, è dell'avviso che ogni membro di essa ha la sua capacità, il suo talento da far trafficare per il bene di tutti, e ognuno deve essere contento del proprio. (...)

Se ognuno è diverso, ognuno può essere dono per gli altri, e con ciò essere sé stesso e realizzare il proprio disegno di Dio nei confronti degli altri. E Paolo vede nella comunità, in cui i diversi doni funzionano, una realtà cui dà uno splendido nome: Cristo. Il fatto è che quell'originale corpo che compongono i membri della comunità è veramente il Corpo di Cristo. Cristo infatti continua a vivere nella sua Chiesa e la Chiesa è il suo corpo.

Nel battesimo, lo Spirito Santo incorpora in Cristo il credente, che viene inserito nella comunità. E lì tutti sono Cristo, ogni divisione è cancellata, ogni discriminazione è superata. Se il corpo è uno, i membri della comunità cristiana attuano bene il loro nuovo modo di vivere se realizzano fra loro l'unità, quell'unità che suppone la diversità, il pluralismo.

La comunità non assomiglia ad un blocco di materia inerte ma ad un organismo vivente con diverse membra. Il provocare le divisioni è, per i cristiani, fare il contrario di quanto devono. Come allora vivrai questa nuova Parola che la Scrittura ti propone?

Occorre che tu abbia un grande rispetto per le varie funzioni, per i doni e i talenti della comunità cristiana. Bisognerà che tu dilati il cuore su tutta la varia ricchezza della Chiesa e non solo della piccola Chiesa che frequenti e ti è nota, come la comunità parrocchiale o l'associazione cristiana cui tu sei legato, oppure il movimento ecclesiale di cui sei membro, ma della Chiesa universale, nelle sue molteplici forme ed espressioni.

Tutto devi sentir tuo, perché sei parte di questo unico corpo. E allora, come tieni in considerazione e proteggi ogni membro del tuo corpo fisico, così devi fare per ogni membro del corpo spirituale. (...) L'essenziale poi è che tu possegga quel carisma che, come annunzia Paolo, supera tutti gli altri ed è l'amore: l'amore per ciascun uomo che incontri, l'amore per tutti gli uomini della terra. È con l'amore, con l'amore reciproco, che le molte membra possono essere un sol corpo.

23-12-2008 di Chiara Lubich
fonte: Città Nuova

 Parola di Vita: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio"» Mt 5, 8

P. Luigi Vitulano, omi 

domenica 22 giugno 2014

Educare vuol dire anche lasciare un buon ricordo

Questo articolo di Pino Pellegrino, rivolto ai genitori è molto valido anche per chi si dedica ai ragazzi, giovani, alunni: animatori, insegnanti, catechisti. Se ognuno di noi ha un bel ricordo della propria infanzia, adolescenza, gioventù e vi ritorna spesso con nostalgia e gioia è perché qualcuno ha impresso nella nostra anima qualcosa di speciale. Perchè allora non  cerchiamo di lasciare un nostro buon ricordo? E' il miglior risultato del nostro operare per gli altri.


Lasciare un buon ricordo

Un buon ricordo, portato con noi fin dall'infanzia, può fare la nostra salvezza.
Ecco perché anche questa mossa non può essere affatto sottovalutata.



L'arte di essere indimenticabili!
"Il valore dei ricordi dell'infanzia" è il titolo di un libro nel quale l'autore, Norman B. Lobsens, riporta le risposte date alla domanda: "Qual è il più bel ricordo che hai dei tuoi primi anni?".
La prima risposta riportata è quella del figlio stesso dell'autore.
Dunque, alla domanda del padre, il figlio risponde: "Mi ricordo quando una sera eravamo soli in macchina e tu ti sei fermato a prendermi le lucciole".
Il bambino aveva cinque anni.
"Perché ti ricordi di questo?", gli domanda il padre.
"Perché non credevo che ti saresti fermato a prendermi le lucciole, invece ti sei fermato!".
 
Per un altro intervistato il più bel ricordo è "il giorno della scampagnata scolastica, quando mio padre - di solito freddo, dignitoso, impeccabile - si presentò in maniche di camicia, si sedette sull'erba, mangiò con noi e partecipò ai nostri giochi lanciando la palla più lontano di tutti. Più tardi scoprii che aveva rimandato un importante viaggio di affari per stare con me quel giorno".
Lasciare un buon ricordo! Anche questo è educare!

D'altronde, un ricordo lo si lascia sempre: in ognuno di noi vi sono tracce dei nostri genitori.
Basta sfogliare una qualsiasi biografia di uomini noti o meno noti per trovare riferimenti alla propria madre, al proprio padre.

Il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca (1898-1936), ad esempio, ricorda: "La mattina quando suonavano le nove, mia madre entrava nella stanza dove già lavoravo e, aprendo la finestra sul balcone, diceva sempre: 'Che entri la grazia di Dio!'".

Julien Green (1900-1998), scrittore francese, ricorda: "Nella mia vita la persona che ha contato di più è stata mia madre. Mi ha dato l'amore alla vita, il desiderio di capire, la tolleranza, soprattutto la tolleranza. Infine mi ha chiuso nel Vangelo, come si chiuderebbe un bambino nel cielo".

Simpatico è il ricordo di Luciano De Crescenzo, anche lui scrittore vivente: "Mia mamma praticava il 'nulla si compra e nulla si getta'. Conservava qualsiasi cosa fosse entrata in casa e riempiva i cassetti di oggetti completamente inutili. Su una delle scatole di spaghi aveva scritto: 'Spaghi troppo corti per essere usati'".

Meno noto è Roberto D'Agostino, lookologo, ma non meno bello il suo ricordo: "Chiara era il nome di mia madre. Tagliava e cuciva reggiseni, corazze di lastex, pieni di ganci, per donne panciute. Era una donna abbastanza allegra. Il più bel ricordo di mamma Chiara? La sua tenacia. Ad essere così ostinato l'ho imparato da lei!".
Insomma, basta essere figli per ricordarci della mamma.

Lo stesso vale per il papà.
Dolce è il ricordo del padre dello psicologo Giuseppe Colombero: "Quando ero bambino mio padre si alzava molto presto per andare a lavorare. Mi ricordo che prima di uscire di casa, si affacciava alla camera dove dormivamo noi piccoli e, stando sulla porta, diceva piano a nostra madre: 'Non preoccuparti di alzarti prima dei bambini per accendere e scaldare la cucina. L'ho già fatto io'. Quando ci alzavamo nostro padre non c'era più, ma quel fuoco, quel tepore parlavano di lui: ci diceva che c'era stato e aveva pensato a noi".

Forse ci stiamo rendendo conto che un buon ricordo è l'eredità più preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli. Un buon ricordo può decidere di un'esistenza.
Lo aveva capito bene lo straordinario scrittore russo Feodor Dostoevskij (1821-1881), il quale diceva: "Sappiate che non vi è nulla di più alto, e forte, e sano, e utile per la nostra vita a venire di qualche buon ricordo, specialmente se recato con voi fin dai primi anni dalla casa dei genitori. Uno di questi buoni e santi ricordi è forse la migliore delle educazioni. E quand'anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro cuore, potrebbe un giorno fare la nostra salvezza".

A questo punto viene spontanea la domanda: "Quale sarà il ricordo che i lettori lasceranno ai loro figli?".
La risposta vien dopo una considerazione: un tempo i poeti dicevano che Dio ci ha dato la memoria per poter avere le rose anche a Dicembre! Fiorivano ad Aprile e a Maggio, però, grazie alla memoria, le rose non sparivano dalla nostra mente.

Ebbene, chi ha scritto, è sicuro che se tanti genitori hanno avuto la buona volontà e l'impegno di leggere fin qui, i loro figli, domani, cresciuti, diranno: "Dio ci ha dato la memoria per poter ricordarci d'aver avuto un bravo papà ed una brava mamma!".

GLI OCCHI DEI FIGLI
Gli occhi dei figli non smontano mai di guardia e memorizzano per la vita intera.
Ecco la confessione di una figlia, ormai adulta, che ricorda alla madre ciò che lei compiva e che sempre le mandava un messaggio così forte, da costruirle l'impianto di fondo della sua educazione.
È una confessione che ci fa riflettere e porta a concludere che in ogni figlio vi è l'imprinting dei genitori. Nel bene e nel male.

"Mamma, quando pensavi che non ti stessi guardando, hai appeso il mio primo disegno sul frigorifero e ho avuto voglia di stare a casa per dipingere.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai dato da mangiare ad un gatto randagio ed allora ho capito che è bene prendersi cura degli animali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, hai cucinato apposta per me la torta del compleanno, ed ho compreso che le piccole cose possono essere molto speciali.
Quando pensavi che non ti stessi guardando hai recitato una preghiera ed ho incominciato a credere nell'esistenza di Dio con cui si può sempre parlare.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai dato il bacio della buona notte e ho capito che mi volevi bene.
Quando pensavi che non ti stessi guardando, mi hai sorriso e ho avuto voglia d'essere gentile con te.
Quando pensavi che io non ti stessi guardando, io guardavo ed ora ho voluto dire grazie per tutte le cose che hai fatto quando pensavi che non ti stessi guardando!
".

UN SEME
La cosa sa di incredibile. Eppure è vera. Alla fine del gennaio 2005 un insegnante d'agraria ha piantato un seme di palma risalente al tempo di Gesù Cristo (la datazione al carbonio 14 ha evidenziato che il seme risale a 1990 anni fa, con un margine di errore di 50 anni).
Il seme è stato rinvenuto a Masada, fortezza nel deserto che sovrasta il Mar Morto.
Nessuno credeva che da esso potesse germinare qualcosa.
Invece, ecco il miracolo che ha sbalordito tutti: "Sei settimane dopo - dice l'insegnante - ho visto spuntare qualcosa dalla terra del vaso nel quale avevo piantato il seme".
 
Attualmente, la palma da datteri è alta circa cinquanta centimetri ed ha una ventina di foglioline.

Getta un buon seme ed i miracoli seguiranno! 



Dal bollettino salesiano giugno 2014-06-14  
COME DON BOSCO
PINO PELLEGRINO:Le tredici mosse dell'arte di educare

venerdì 20 giugno 2014

Per chi dice di non saper pregare, una lettera



LETTERA SULLA PREGHIERA
di Mons: Bruno Forte)



Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.
Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Ora, l’amore nasce dall’incontro e vive dell’incontro con l’amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l’amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l’eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l’aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.
Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? 
Ti rispondo: comincia a dare un po’ del tuo tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un’icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica…). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.
Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre – Madre nell’amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l’anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.
Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l’esperienza della vita vissuta nell’orizzonte dell’alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.
All’inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all’inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.
Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall’eloquenza silenziosa delle tue opere.
Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l’unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.
Verrà l’ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l’ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l’ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d’amore, inondata dalla gioia della presenza dell’Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.
Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d’uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d’acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall’amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l’audacia dell’amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.
Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l’amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l’unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell’amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l’iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.
Pregando, s’impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l’urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell’Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l’eternità.
Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.
(Mons. Bruno Forte)