LE TRISTEZZE DEI POVERI di don Tonino Bello
Quella frase di Isaia mi turba con la stessa quota di
brividi almeno due volte l’anno. A Natale e a Pasqua.
A Natale, quando contemplo Gesù condannato al legno della
mangiatoia. A Pasqua, quando mi inginocchio davanti a Gesù condannato al legno
della croce.
Mangiatoia e croce (i due assi che comprimono tutta
l’esistenza umana del Figlio di Dio) mi sembrano allora legni
così porosi, che riescono a prosciugare, come spugne gigantesche, tutte
le tri- stezze del mondo.
Mangiatoia e croce (l’« a» e la «z» del durissimo alfabeto
terreno di Cristo) si trasfigurano, sotto i paradossi della fantasia, in due
scrigni senza fondo, verso cui precipitano tutte le lacrime della storia.
Mangiatoia e croce (prologo ed epilogo di quella che i
teologi chiamano «espiazione vicaria» di Cristo) mi appaiono allora come scafo
e antenna di un’unica nave destinata a dragare tutte le mine di dolore
galleggianti nel mare della vita.
La frase di Isaia, comunque, è questa: Lui si è caricato
delle nostre sofferenze, e si e addossato i nostri dolori.
Sicché, a Natale, a meno che uno non si fermi solo alla
scorza sterile delle emozioni, non è possibile guardare la culla
di Gesù senza pensare che essa è divenuta la misteriosa calamita attorno a cui
si compattano tutte le tristezze del pianeta. La tragedia dei poveri devastati
dalla guerra e le lacrime delle genti sconvolte dal terremoto. La malinconia
serale delle ragazze filippine accanto alla stazione Termini, e lo sguardo
umido del senegalese col presepe degli accendini sulle stuoie adagiate per
terra. Il groppo di pianto di Maria che non può far ben figurare la figlia per
i suoi diciotto anni e la ferialità di tanti natali vissuti in umidi
sotterranei senza canti di pastorali e senza
scintillare di comete.
Succede allora che la mangiatoia di Gesù, per un prodigio di
strane dissolvenze, non ti sembra più di legno, ma di quella speciale fibra
sintetica prodotta dalla sedimentazione stratificata dell’u-
mano soffrire.
Ma anche a Pasqua, a meno che uno
non ne svuoti il mistero con facili contentature rituali, è impossibile
contemplare la croce di Gesù
senza convincersi che essa è divenuta il centro di un irresistibile campo magnetico entro cui si condensa il patire di tutte le periferie
dell’universo. Lo smarrimento delle madri del Bangladesh che stringono figli
smagriti a seni senza latte, e la muta implorazione del
nigeriano che mi offre l'ennesimo pacco di fazzoletti al semaforo di via
Manzoni.
Il pudore di Giovanni che si è indebitato a tal punto che nessuno gli fa più credito, e la
stanchezza dei profughi croati che trascinano senza
meta carretti di masserizie sottratte all’incendio. La
solitudine della vecchietta che se ne muore senza
alternarsi di figli a capezzali polverosi, e il tanfo greve dei
vagabondi metropolitani che il vento della notte raduna come foglie d’autunno
nella sala d’aspetto della stazione.
Succede allora che la croce di Gesù, per uno strano processo
di alterazione chimica, non ti sembra
più di legno, ma di quel materiale che risulta composto da
infinite scorie di dolore umano amal-gamate insieme da tutte le lacrime della
terra.
Se uno coglie questo trascolorare
organico della mangiatoia e della
croce, deve ringraziare il Signore. Vuol dire che sta vivendo un momento forte di salvezza.
Ma nello stesso tempo deve trarre tutte le esigenti conseguenze che derivano da questa contemplazione.
Anche lui, cioè, come Gesù Cristo
che ben conosce il patire , deve caricarsi delle sofferenze del
mondo.
Non gli possono rimanere estranee le tribolazioni dei poveri. Deve
sentirsi interpellato dalla disperazione della vedova che non trova lavoro per il più grande dei suoi
figli, e dall’umiliazione di chi si vede sistematicamente superato in tutti i concorsi di stato. E chiamato a condividere l’agonia di Angela che intraprende
l'ultimo viaggio della speranza per la
sua bambina malata, e la mestizia di Antonio mezzo esaurito
che ha da raccontare solo imprese fallimentari. Sente riverberarsi
nella sua anima l’amarezza di chi non trova appoggi in nessun santo
protettore, e lo scoramento dei genitori il cui figlio, messo alle corde da un
sistema di ingiustizia, ha intrapreso, purtroppo, una strada di perdizione.
Scatta per il credente, cioè, come per Gesù Cristo, lo
stesso meccanismo della sostituzione «vicaria», ben espresso dalla Gaudium et
Spes quando dice che la tristezze e le angosce dei poveri soprattutto, e di
tutti coloro che soffrono... sono le tristezze e le angosce dei credenti in Gesù Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco
nel loro cuore.
Ed è proprio da qui, carissimi catechisti, che deve partire
ogni discorso che intenda ancorarsi agli ormeggi di una sana
teologia della solidarietà. Questi ormeggi sono due: la mangiatoia e la croce.
Sono i «luoghi» che fondano ogni autentico impegno di pace. Ogni rivendicazione di giustizia. Ogni fatica per una società conviviale,
sottratta finalmente alle prepotenze dei più «dritti».
A questi luoghi dobbiamo abituare i nostri ragazzi a volgere
lo sguardo. Con atteggiamento pensieroso e gravido di progetti, oltre che
commosso.
Senza questo sguardo, tutti gli altri discorsi sulla
comunione risulteranno ambigui. Se pure non si porteranno dentro i germi dell’egoismo, destinati tristemente a produrre «fiori del male» in un
deserto di violenza
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