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venerdì 10 gennaio 2014

Lui si è caricato delle nostre sofferenze, e si é addossato i nostri dolori, di don Tonino Bello





LE TRISTEZZE DEI POVERI di don Tonino Bello





Quella frase di Isaia mi turba con la stessa quota di brividi almeno due volte l’anno. A Natale e a Pasqua.

A Natale, quando contemplo Gesù condannato al legno della mangiatoia. A Pasqua, quando mi inginocchio davanti a Gesù condannato al legno della croce.

Mangiatoia e croce (i due assi che comprimono tutta l’esistenza umana del Figlio di Dio) mi sembrano allora legni così porosi, che riescono a prosciugare, come spugne gigantesche, tutte le tri- stezze del mondo.

Mangiatoia e croce (l’« a» e la «z» del durissimo alfabeto terreno di Cristo) si trasfigurano, sotto i paradossi della fantasia, in due scrigni senza fondo, verso cui precipitano tutte le lacrime della storia.

Mangiatoia e croce (prologo ed epilogo di quella che i teologi chiamano «espiazione vicaria» di Cristo) mi appaiono allora come scafo e antenna di un’unica nave destinata a dragare tutte le mine di dolore galleggianti nel mare della vita.


La frase di Isaia, comunque, è questa: Lui si è caricato delle nostre sofferenze, e si e addossato i nostri dolori.


Sicché, a Natale, a meno che uno non si fermi solo alla scorza sterile delle emozioni, non è possibile guardare la culla di Gesù senza pensare che essa è divenuta la misteriosa calamita attorno a cui si compattano tutte le tristezze del pianeta. La tragedia dei poveri devastati dalla guerra e le lacrime delle genti sconvolte dal terremoto. La malinconia serale delle ragazze filippine accanto alla stazione Termini, e lo sguardo umido del senegalese col presepe degli accendini sulle stuoie adagiate per terra. Il groppo di pianto di Maria che non può far ben figurare la figlia per i suoi diciotto anni e la ferialità di tanti natali vissuti in umidi sotterranei senza canti di pastorali e senza scintillare di comete.

Succede allora che la mangiatoia di Gesù, per un prodigio di strane dissolvenze, non ti sembra più di legno, ma di quella speciale fibra sintetica prodotta dalla sedimentazione stratificata dell’u- mano soffrire.


Ma anche a Pasqua, a meno che uno non ne svuoti il mistero con facili contentature rituali, è impossibile contemplare la croce di Gesù senza convincersi che essa è divenuta il centro di un irresistibile campo magnetico entro cui si condensa il patire di tutte le periferie dell’universo. Lo smarrimento delle madri del Bangladesh che stringono figli smagriti a seni senza latte, e la muta implorazione del nigeriano che mi offre l'ennesimo pacco di fazzoletti al semaforo di via Manzoni. 


Il pudore di Giovanni che si è indebitato a tal punto che nessuno gli fa più credito, e la stanchezza dei profughi croati che trascinano senza meta carretti di masserizie sottratte all’incendio. La solitudine della vecchietta che se ne muore senza alternarsi di figli a capezzali polverosi, e il tanfo greve dei vagabondi metropolitani che il vento della notte raduna come foglie d’autunno nella sala d’aspetto della stazione.


Succede allora che la croce di Gesù, per uno strano processo di alterazione chimica, non ti sembra più di legno, ma di quel materiale che risulta composto da infinite scorie di dolore umano amal-gamate insieme da tutte le lacrime della terra.

Se uno coglie questo trascolorare organico della mangiatoia e della croce, deve ringraziare il Signore. Vuol dire che sta vivendo un momento forte di salvezza.

Ma nello stesso tempo deve trarre tutte le esigenti conseguenze che derivano da questa contemplazione.

Anche lui, cioè, come Gesù Cristo che ben conosce il patire , deve caricarsi delle sofferenze del mondo. 

Non gli possono rimanere estranee le tribolazioni dei poveri. Deve sentirsi interpellato dalla disperazione della vedova che non trova lavoro per il più grande dei suoi figli, e dall’umiliazione di chi si vede sistematicamente superato in tutti i concorsi di stato. E chiamato a condividere l’agonia di Angela che intraprende l'ultimo viaggio della speranza per la sua bambina malata, e la mestizia di Antonio mezzo esaurito che ha da raccontare solo imprese fallimentari. Sente riverberarsi nella sua anima l’amarezza di chi non trova appoggi in nessun santo protettore, e lo scoramento dei genitori il cui figlio, messo alle corde da un sistema di ingiustizia, ha intrapreso, purtroppo, una strada di perdizione.


Scatta per il credente, cioè, come per Gesù Cristo, lo stesso meccanismo della sostituzione «vicaria», ben espresso dalla Gaudium et Spes quando dice che la tristezze e le angosce dei poveri soprattutto, e di tutti coloro che soffrono... sono le tristezze e le angosce dei credenti in Gesù Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.



Ed è proprio da qui, carissimi catechisti, che deve partire ogni discorso che intenda ancorarsi agli ormeggi di una sana teologia della solidarietà. Questi ormeggi sono due: la mangiatoia e la croce.

Sono i «luoghi» che fondano ogni autentico impegno di pace. Ogni rivendicazione di giustizia. Ogni fatica per una società conviviale, sottratta finalmente alle prepotenze dei più «dritti».

A questi luoghi dobbiamo abituare i nostri ragazzi a volgere lo sguardo. Con atteggiamento pensieroso e gravido di progetti, oltre che commosso.

Senza questo sguardo, tutti gli altri discorsi sulla comunione risulteranno ambigui. Se pure non si porteranno dentro i germi dell’egoismo, destinati tristemente a produrre «fiori del male» in un deserto di violenza

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